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Il business del Motomondiale 1a puntata: la voce del padrone

20 Settembre 2016 di Massimiliano Garavini Lascia un commento

Il business del Motomondiale: dagli anni ’70 ad oggi. Come ha fatto la Dorna a diventare padrona del campionato? Chi sono i padroni dell’attuale MotoGP e come sono arrivati ad esserlo? Vi racconteremo tutto questo in lungo ed interessante approfondimento diviso in tre capitoli

Partiamo dalla fine. Che è l’inizio di questa storia.Il sito ufficiale del Campionato del Mondo di MotoGP, motogp.com pubblica con enfasi: “ ‘25 Years Racing Together ‘ è lo slogan che accompagnerà i momenti topici del GP del Qatar e di tutti gli altri eventi più importanti del 2016. Le foto dei protagonisti di questi anni, i gadget, un documentario televisivo, una mostra e un libro parleranno poi della storia della competizione motociclistica più seguita al mondo e celebreranno ancora di più questa fantastica avventura partita nel 1992”.




Il logo celebrativo mette sullo stesso piano DORNA, FIM, MSMA (associazione costruttori), IRTA (associazione dei team). Tutti assieme e tutti contenti di partecipare alla grande festa per i 25 anni di matrimonio.

Al recente Gran Premio d’Olanda, Dorna ha dichiarato che ai team privati facenti capo all’IRTA verrà riconosciuto un contributo pari a due milioni di euro, corrispondente all’incirca al canone di noleggio richiesto dai produttori di moto per far correre un prototipo nella massima serie.

Questa manovra, è stato detto, è stata pensata per agevolare le squadre che, tra molte difficoltà, prendono parte al campionato del mondo MotoGP.

Facciamo un passo indietro nel recente passato. E’ il 1990 e va in scena la vecchia classe 500. Al via troviamo piloti americani, europei, qualche giapponese.

Quindici partenti, che sembrano davvero soffrire di solitudine in circuito. Niente a che vedere coi 22 partenti attuali. La crisi sembrava irreversibile.

Facciamo un altro salto nel tempo: 1978, l’anno di Kenny “King” Roberts. Gli americani sono sbarcati nel circus del gioco che conta. Non più cowboys che corrono su ovali sterrati, dirt-track o flat-track, oppure sulle veloci e pesanti quattro tempi derivate dalla serie dell’abbozzato campionato nazionale superbike. Riders affamati, giovani, esuberanti, tecnicamente imbattibili.

La superstar del circus iridato, in Europa, è Barry Sheene. Famoso ai suoi tempi quasi quanto Valentino Rossi ai giorni nostri. Verrà soprannominato “Iron Man” per il quantitativo di acciaio chirurgico che aveva nel corpo, conseguenza delle numerose cadute. I circuiti non erano sicuri e le due tempi da competizione erano potenti, ma fragili. Barry subì un grippaggio dalle conseguenze disastrose, mentre provava una Suzuki 750 a Daytona. Si rischiava la vita per niente, dato che gli ingaggi erano costituiti quasi interamente dai premi in gara. Se ti piazzavi entro i primi dieci bene, altrimenti tornavi a casa con la soddisfazione, si fa per dire, di avere partecipato.

Era il motociclismo romantico delle moto sui furgoni, delle giornate trascorse in autodromo per vedere gareggiare fino a sette (!) classi, in cui il marketing legato all’evento era lasciato ai promoter dei circuiti.

Sono anni particolari: la crisi petrolifera ha inciso anche sulle abitudini sociali. Meno gente a vedere le gare, e più spettatori davanti alle TV. Lo sport comincia ad affacciarsi in televisione e funziona benissimo. Il motorsport perde la sua vocazione quasi interamente eurocentrica per tentare di divenire un fenomeno di intrattenimento globale.

La F1 l’ha capito prima e meglio di tutti, e ha aperto la strada. Il motomondiale, col suo carrozzone romantico e abborracciato, segue a distanza – non troppo – ravvicinata.

Il vecchio mondo sta per cambiare.

La FIM, la federazione internazionale di motociclismo, resta ancorata alle regole che le hanno consentito, in passato, di prosperare.

C’è, in proposito, un articolo illuminante dello scomparso Ezio Pirazzini – decano dei giornalisti sportivi italiani, amico personale di “Checco” Costa fondatore dell’autodromo di Imola e padre del famoso Dott. Claudio Costa, il medico dei piloti – che parla del motomondiale agli albori degli anni ‘70:

“…Il nuovo presidente, lo spagnolo Don Nicolas Rodil Del Valle, non spostava di una virgola l’ordinamento del suo predecessore Nortier, rimasto in carica dal 1959 al 1965. Non cambiavano intenti e procedimenti dell’Ente, giunto a riunire ben 43 federazioni nazionali. L’orientamento sportivo non registrava un neppur minimo ridimensionamento. Il rigido conservatorismo della FIM non denunciava alcuna flessione: anzi da dodici le prove diventavano tredici con la promozione di un inedito Gran Premio del Canada, destinato al fallimento come i precedenti esperimenti sempre nell’America del Nord. Con l’eccessivo numero di prove e con altri difetti, il motomondiale accusava in modo ancora più allarmante che in passato la rarefazione delle marche partecipanti in forma ufficiale. Oggi si potrebbe discutere a lungo di questa espansione che però ha avuto il pregio di far conoscere il motociclismo in tutto il mondo. Semmai noi pensiamo che la causa del ritiro delle Case non sia stata questa, ma di ben altra natura: prima fra tutte il convincimento che non sempre le competizioni sportive possono essere di valido supporto alla produzione di serie. Semmai c’è da recriminare che mai il motociclismo, con le sue proprie forze, è riuscito ad entrare in quella potenziale orbita di attrazione che tutti gli riconoscono. Al punto che maneggioni di ogni specie ci hanno messo mani e piedi per cercare di trarne profitto non per il bene del motociclismo visto come tale, ma per il loro interesse personale, o per il loro potere, che poi alla fine è la stessa cosa…” (fonte Motosprint: rubrica “Amarcord” di Ezio Pirazzini, titolo “Tanti inutili cavalli”)

Quindi, prima della rivoluzione copernicana dell’arrivo in massa delle case giapponesi e dei piloti statunitensi, il campionato del mondo di motociclismo vive un periodo decisamente appannato. Poche case, pochi piloti, sempre gli stessi vincitori con poche novità.

Kenny Roberts però non ha paura di esprimersi. Viene da oltreoceano, dove lo sport significa meno politica e più business. Forse non capisce bene le regole, forse fa lo gnorri. Comunque vive con insofferenza una condizione paradossale: è lui il nuovo idolo, il pilota di riferimento, quello che la stampa chiama “il marziano” per il suo strano stile di guida: in curva non inclina la moto con fluido movimento, ma la butta in piega ginocchio a terra e la rialza appena oltre il punto di corda.

Niente sarà più come prima. Roberts è il nuovo Re del motociclismo. Yamaha e Suzuki regalano spettacolo in pista e i piloti cominciano a diventare superstars.

Sheene aveva aperto la strada: simpatico, guascone e sempre circondato di belle donne. Il numero 7 della Suzuki Heron può essere sintetizzato con un aggettivo: mediatico; amico del campione del mondo di Formula Uno James Hunt, con cui condivideva eccessi e sregolatezze, appariva continuamente – solo o in compagnia della conturbante fidanzata Stephanie – sui media.

I piloti non sono più confinati nelle roulotte, ma diventano protagonisti del jet set internazionale. Fanno vendere. Bucano lo schermo.

Il marketing sportivo nel motociclismo è al neolitico. Fino a pochi anni prima si limitava quasi esclusivamente alle sponsorizzazioni in circuito o sulla stampa di settore, escluso qualche timido accenno di personalizzazione sulla tuta dei campioni più famosi. Seguendo l’esempio della F1, il motomondiale diventa un formidabile volano di interessi.

Il governo delle due ruote, ovvero la FIM, appare del tutto indifferente a intercettare queste nuove istanze.

Si continua nel solito modo, cari racers fatevene una ragione.

Da una parte la federazione e i proprietari degli autodromi – che spesso coincidono con i promoter della gara nazionale – e dall’altra i piloti.

Come si correva ai bei tempi del motociclismo tutto cuore e olio di ricino ?

Male. I riders possono contare unicamente sui premi gara, sui contratti di ingaggio che riescono a strappare ai team e sulle sponsorizzazioni personali. La partecipazione agli utili derivante dalla vendita dei diritti TV o dell’advertising sui circuiti, oppure ancora dello sfruttamento commerciale di tutto quanto abbia a che fare col prodotto motomondiale niet. Verboten. In pista, però, ci vanno loro. La pelle la rischiano loro.

Sul circuito finlandese di Imatra, tanto per citarne uno, ad un certo punto del tracciato compare un dosso in corrispondenza di un passaggio a livello. Le foto dell’epoca mostrano il salto delle moto sopra le rotaie. Hai un bel parlare di sicurezza:

Se non gareggi, non guadagni e se non guadagni come fai a pagarti le spese ?

Così rischi, e stai zitto.

Kenny no. Lui zitto non ci sta. A Jarama, in occasione del GP di Spagna, Re Juan Carlos in persona lo premia: lui pare abbia risposto al sovrano “il re sono io”.

Facile che un tipo del genere fatichi a stare dentro le regole ingessate di una federazione che gli appare molto distante, non solo per geografia di provenienza.

Roberts gioca d’anticipo ed esce allo scoperto nel 1980: annuncia le World Series, un campionato alternativo a quello ufficiale, gestito però da una società di fiducia dei piloti. Quello dei piloti è un parziale bluff. Stanchi dell’immobilismo che regnava nelle stanze del potere, dopo qualche riunione “segreta” decisero di uscire allo scoperto. Se c’era un piano, ed è possibile che non ci fosse, nessuno se n’è mai accorto. Non tutti aderiscono al progetto, ma quelli che lo fanno sono nomi di primo piano, tra cui Barry Sheene e il nostro Virginio Ferrari.

La sparata mediatica, amplificata dalla popolarità dei personaggi che caldeggiarono l’impresa, fece scattare un campanello d’allarme per i vertici della FIM.

Il big game, quello che garantiva la visibilità planetaria, i ricavi milionari e di conseguenza il potere, era a rischio.

Teniamo bene in mente questo bluff a carte scoperte, perché più avanti negli anni lo ritroveremo, e scopriremo come da semplice boutade si trasformerà in una macchina da business.

I piloti insorgono, decidono di organizzarsi, di non rimanere inermi. Pretendono insomma.

La federazione si comporta come sa fare: in primo luogo vorrebbe ignorare la protesta, poi minimizzarla, poi ammettere che “ sì,ma,forse ” e prendere tempo. Vuole capire che intenzioni abbiano i piloti, e quale seguito potrebbero ottenere.

I giornalisti che seguono il motomondiale sono perlopiù giovani, quasi coetanei dei campioni in pista. Scrivono per i quotidiani e i settimanali, sono inviati delle tivu, non hanno timori reverenziali a frequentare i racers. La tribù è allargata, e la FIM non se ne accorge. I media però sì. La rivolta dei piloti viene amplificata, le riunioni segrete – quanto poi lo fossero davvero è un altro discorso – delle conventicole dei sediziosi sono puntualmente rivelate e il pubblico, tra lo stupore generale, sta dalla parte dei propri beniamini.

Il massimo, dei minimi, si raggiunge nel 1979: Spa Francorchamps, in Belgio, i piloti decidono di incrociare le braccia. Troppo pericoloso, troppo pressapochismo, poche motivazioni e pochi soldi.

World Series, da quel momento in avanti, diventano sinonimo di sinistro spettro che si aggira per il motorsport.

Immaginiamo la scena: la federazione si ritrova a gestire un mondiale di sette classi senza i grandi campioni, senza appeal, facendo correre illustri sconosciuti su moto progettate per essere guidate al limite.

Le case giapponesi, che avevano intuito per prime il potenziale di marketing delle corse, avrebbero buttato investimenti importanti in un campionato che, privato dei suoi eroi, non sarebbe interessato a nessuno.

Perchè la boutade delle World Series è naufragata ?

Sostanzialmente perché è mancata la visione d’insieme di un progetto tanto ambizioso. Il putsch dei piloti, che è arrivato a comporre lo scheletro di un direttorio che avrebbe dovuto governare il motomondiale, non poteva avere la vista tanto lunga.

Kenny Roberts, a cui va il merito di aver portato nell’ambiente tutto sommato ruspante del circus iridato una sana ventata di professionismo, non è riuscito ad aggregare in tempo utile tutti i soggetti che avrebbero, col loro peso, inciso sui destini del motorsport a due ruote. I piloti complici nel golpe avevano addirittura deciso di investire dei galloni di generale una vecchia gloria di indiscussa autorità: Geoff Duke, tre volte campione del mondo della classe 500 con la Gilera dal 1953 al 1955.

Il progetto di campionato alternativo ha avuto in effetti vita breve. Il campanello d’allarme è suonato forte e la FIM si è spaventata. E’ corsa ai ripari.

Ha fatto concessioni ai racers, gli ha permesso di fondare IRTA, una sorta di “associazione sindacale” dei piloti, ha graziato i riottosi impedendo ripercussioni sulle carriere dei campioni, ha elargito mancette qua e là, è riuscita a ricucire con le case giapponesi che più di ogni altra cosa avevano interessi nel motorsport. Ha fatto concessioni.

Ricordiamoci che in quegli anni c’era un vero e proprio boom di moto sportive e i mercati europei e nordamericani erano invasi dalle maximoto nipponiche.

Riportiamo, per semplicità, un estratto dalla sezione storica del sito ufficiale della FIM, che rievoca quanto accaduto durante il congresso internazionale del 1978 a Caracas e una sintesi dell’intervento del Presidente Rodil Del Valle a Montreux nel 1979 in occasione del 75° anniversario della federazione: “[1978] Durante il conteggio [delle schede per l’elezione del presidente], Barry Sheene ha chiesto di parlare a nome dei piloti presenti e fatto alcune osservazioni su certe piste che avrebbero ospitato il campionato 1978. Voleva conoscere quali circuiti non sarebbero stati utilizzati l’anno successivo. “Nonostante il nostro interessamento, i circuiti di Salisburgo, Opatija, Barcellona, ??Spa-Francorchamps, Dijon-Prenois, Brno, Imatra e il Mugello non dovrebbero essere inclusi nel campionato del mondo del 1978, in quanto le misure di sicurezza non sono sufficienti “. I piloti hanno inoltre chiesto che si dedichi maggiore attenzione alla sicurezza, soprattutto per quanto riguarda il team medico del Dr. Costa il cui lavoro è stato spesso ostacolato. Il presidente [Rodil Del Valle] ha ringraziato il sig Sheene per i suoi commenti e gli ha chiesto, così come stabilito nei regolamenti FIM, di discutere in primo luogo i problemi con la commissione responsabile di riferimento [CCR – Commissione Corse su Strada ]. Questo era formalmente corretto, ma i piloti hanno ottenuto che passasse il loro messaggio. Il problema stava venendo alla luce…

* La partecipazione dei piloti nelle commissioni sportive è stata vivamente raccomandata dalla

presidenza. Due piloti in ogni Commissione avrebbero avuto il ruolo di portavoce per i loro

colleghi. Sarebbero stati presentati dalla propria federazione nazionale e sarebbero stati eletti dai loro colleghi attraverso un voto postale. I piloti eletti sarebbero stati inclusi nella commissione nel corso delle riunioni di primavera e il loro mandato sarebbe durato due anni.

* La Commissione corse su strada ha studiato il problema di omologazione dei circuiti e ha chiesto che l’elenco di circuiti già omologati nel corso degli ultimi cinque anni debba essere redatto e pubblicato, e che dovrebbero essere introdotti i certificati di omologazione…

La CCR si è dimostrata favorevole ad una più stretta collaborazione tra i piloti e la

giuria internazionale e ha raccomandato agli organizzatori di autorizzare i piloti a partecipare e ad avere voce in capitolo nell’organizzazione di un evento. La mentalità stava lentamente cambiando, c’erano meno chiacchiere sul fatto che la FIM avrebbe dovuto comunicare solo con le FMN [Federazioni Motociclistiche Nazionali] …

* Un altro punto all’ordine del giorno era l’elezione del presidente della CCR e c’erano due candidati.

L’olandese Jaap Timmer ha vinto le elezioni contro l’irlandese William McMaster (7 voti favorevoli, 5).

I piloti sono stati poi invitati a partecipare alle riunioni: Pierpaolo Bianchi, Johnny Ceccotto, Mario

Lega, Angel Nieto e Barry Sheene. La discussione è stata vivace, come si può immaginare, ma almeno un dialogo è stato stabilito (se fosse stato fatto in precedenza, molti problemi avrebbero potuto certamente essere evitati). I piloti hanno pensato che fosse troppo semplice aspettare il momento in cui ci scappasse il morto circuito prima di trovare il problema o vietare la corsa. Ogni circuito dovrebbe essere esaminato elencandone i difetti e le qualità, i cambiamenti che

devono essere fatti, i miglioramenti da intraprendere o addirittura vietare del tutto.

…

[1979]In CCR, l’argomento principale da esaminare sono stati i GP del Belgio e di Spagna. I problemi relativi all’applicazione delle norme relative al pagamento dei bonus di partenza hanno esasperato alcuni piloti. Kenny Roberts, il vincitore del GP di Spagna 500cc, aveva rifiutato il trofeo offertogli dal presidente Rodil del Valle durante la cerimonia di premiazione, gesto che mostra il suo disaccordo con gli organizzatori. A Spa-Francorchamps, la nuova riasfaltatura si era dimostrata

molto scivolosa. La maggior parte dei piloti erano d’accordo per correre una gara, ma solo se si fosse trattato di una corsa internazionale senza conseguenze per la classifica iridata, ma la proposta non è stata accettata. Di conseguenza, molti piloti, tra cui la maggior parte delle stelle nella classe 500, si era rifiutata di partire. Le sanzioni erano state comminate, ma sono state cancellate dall’amnistia Montreux. Barry Sheene ha chiesto di annullare il punteggio assegnato, ma la

CCR ha votato e ha deciso che la gara sarebbe stata valida per il campionato. Tutti gli altri GP, in particolare quelli di Venezuela, Inghilterra e Francia sono stati considerati di eccellente organizzazione.

Per quanto riguarda le omologazioni delle piste, il vecchio Nürburgring era sulla lista ancora una volta in accordo a Mr Haupt dalla OMK, che aveva dichiarato che la nuova pista era in ritardo e non sarebbe stata pronta prima di altri due anni. Barry Sheene ha trovato la pista molto pericolosa ed è stato totalmente contrario a rinnovare la sua omologazione. Egli ha sottolineato che, se dovessero verificarsi incidenti, il CCR sarebbe responsabile. Infatti Barry Sheene era letteralmente fuori controllo. Ma non ha aiutato. Dopo il voto (due votazioni sono state

necessarie), il CCR ha deciso di rinnovare l’omologazione del vecchio circuito del Nürburgring per tre anni. Il CCR ha formato una commissione speciale incaricata di omologare i circuiti con una nuova procedura. Tutti i membri hanno convenuto che il parere di diversi piloti era importante e anche un fattore determinante. Il gruppo di lavoro per le misure di sicurezza era composta da signori McMaster, Brenni e Cooper. ”

Questo, in sostanza, era il clima che si respirava. Barry Sheene che dà di matto perché i piloti sono ascoltati ma, in sostanza, non contano niente.

Come accade in politica, anche nella gestione sportiva vige la regola che se vuoi che qualcosa non cambi, tutto deve cambiare.

La cosa ha funzionato, per qualche anno. La carriera dei piloti di moto era – in quegli anni – breve: si cominciava più tardi, si finiva presto, vuoi per incidenti vuoi per un continuo ricambio al vertice che proponeva sempre nuovi fenomeni delle due ruote.

Il fatto che quasi tutto fosse rimasto, nella legge immutabile della conservazione, identico a sé stesso, non significa però che le cose fossero completamente ristabilite.

Gli anni ‘80 furono la grande stagione dei campioni a stelle e strisce. Il ritiro di Kenny Roberts dalle competizioni, avvenuto nel 1980, apre la strada agli indimenticabili successi del 1981 e del 1982 di Marco Lucchinelli e Franco Uncini; poi la scena la rubano “Fast” Freddie Spencer, Eddie “Steady” Lawson, Wayne Rainey e Kevin Schwantz per un decennio intero, con l’unica parentesi del mondiale vinto nel 1987 da Wayne Gardner, prima dell’era Michael Doohan.

Dieci anni in cui il motociclismo sportivo si trasforma completamente, per diventare simile a quello attuale.

Cosa accadde esattamente ? Il professionismo diventa la regola, non più l’eccezione. I piccoli team, senza risorse ma con tanta buona volontà, diventano semplicemente un riempi griglia buono per far numero.

Gli sponsor “tabaccai”, con uffici marketing vicini ai centri di potere federali, investono su un campionato solo se questo garantisce la necessaria copertura mediatica.

Ecco quindi che le carene delle moto, che fino ai primi anni ‘80 avevano visto in prevalenza i loghi e i marchi degli sponsor “tecnici”, diventano ambite bandiere per reclamizzare sigarette, alcolici, e prodotti di consumo di massa.

Per essere “di massa” però, ci vuole un pubblico più allargato, meno confinato e settoriale di quello abituale degli appassionati.

Ci vuole la TV. Il motomondiale deve diventare uno sport globale, aperto a tutti i mercati, pronto a sfondare anche dove tradizionalmente non attacca.

Gli aneddoti su questo punto si sprecano.

Freddie Spencer era disperato perché, da grande consumatore della bibita tipicamente americana Dr. Pepper (una sorta di coca-cola alla ciliegia), durante la stagione di gare in Europa non ne avrebbe trovato neppure una goccia.

Eddie Lawson, in un’intervista, dichiarava tra il serio e il faceto che : «il mio vicino di casa [negli States], finalmente ha scoperto che cosa facessi per vivere. Si è sempre chiesto di cosa mi occupassi visto che stavo per lunghi mesi lontano.»

I campioni americani, idoli delle folle europei degli autodromi, in casa loro non se li filava nessuno. I media americani non erano semplicemente interessati ad acquistare un prodotto che non facesse vendere spazi pubblicitari appetibili per il loro mercato.

La Formula 1, anche in questo caso, ha aperto la strada: l’utilizzo massaccio e invadente di tecniche di marketing sempre più aggressivo, ha permesso di passare direttamente dalla fase del motorismo romantico a quello, più prosaico, del motorsport business.

La federazione, dopo gli anni paludati della guida di Rodil Del Valle, nel 1983 vede un avvicendamento al vertice con l’elezione del lussemburghese Nicolas Schmit che sarà presidente per due mandati, fino al 1989.

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